Maria Cristina Paoletti collabora da tempo con l’Associazione Nicola Saba.
I nostri corsisti hanno avuto modo di apprezzare la sua chiarezza espositiva in una serie di incontri di argomento economico.
Per il prossimo anno scolastico propone un corso base di Economia Politica
dal significativo titolo “Capire l’economia”.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Maria Cristina Paoletti

 

Origini e cause del debito pubblico italiano

 

18 01

Nel corso di tre incontri ho avuto modo di affrontare il tema della genesi e della c.d. esplosione del debito pubblico del nostro Paese e successivamente la relazione tra debito pubblico degli stati membri dell’Unione Europea e la normativa di rigore finanziario prevista da quest’ultima a partire dal Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione, del 1992. In vista dell’introduzione di una moneta unica europea (l’euro), il trattato prevedeva due obblighi fondamentali: a) un debito pubblico non superiore al 60% del Pil; b) un deficit di bilancio pubblico che non superasse la soglia del 3% del Pil. Per ragioni di spazio ci si limiterà a riportare il contenuto del primo incontro, accennando brevemente ai temi degli incontri successivi.
Preliminarmente si sono delucidati alcuni concetti fondamentali quali la nozione di PIL (prodotto interno lordo), di bilancio pubblico, di spesa primaria (le uscite della Pubblica Amministrazione legate all’erogazione di servizi, alla previdenza e agli investimenti) e del conseguente concetto di saldo primario. Rispetto alle entrate, il saldo primario può essere: a) in pareggio; b) positivo, se le uscite risultano minori delle entrate costituendo il c.d. avanzo primario; c) negativo, se le spese eccedono le entrate e in questo caso si parla di disavanzo primario.
Ci si è soffermati, quindi, sulla nozione di deficit o indebitamento netto che è invece dato dal saldo primario sommato alle spese per gli interessi sul debito pubblico. Il debito pubblico è l’importo complessivo dei prestiti che lo Stato ed altre pubbliche amministrazioni contraggono periodicamente per far fronte al deficit di bilancio. La copertura del debito viene realizzata per la quasi totalità con l’emissione di Titoli di Stato a breve, medio, lungo termine.
E’ notorio che il debito pubblico italiano è molto elevato (esso ha toccato nel 2013 la cifra di 2069 miliardi di euro, pari al 132,1% del Pil). A partire dagli inizi del 2010 è stata diffusa dai governi e dalla maggior parte dei media la tesi secondo cui l’enorme debito pubblico italiano è dovuto ad una spesa pubblica eccessiva, ad una finanza “allegra” portata avanti per decenni al fine di garantire salute, istruzione, pensioni ed altre forme di protezione sociale ai cittadini senza che il paese se lo potesse permettere. Ho cercato di “sfatare” tale vulgata secondo cui i cittadini italiani sarebbero vissuti al di sopra delle loro possibilità sulla base delle considerazioni che seguono.
Se è indiscutibile che il “debito sovrano” dell’Italia costituiva una voragine enorme, tuttavia, nel contesto globale, il nostro Paese era in “buona compagnia”. Sia gli Stati Uniti e ancor più il Giappone avevano un elevato debito pubblico. Quest’ultimo era vistosamente aumentato negli stati dell’Eurozona tra il 2007 e il 2009. Infatti, vari governi europei avevano attuato un’operazione di salvataggio, a spese dei bilanci pubblici, di numerose banche in grave dissesto a causa della loro politica speculativa dissennata che aveva portato in Usa e in Europa alla grande crisi finanziaria. Questa si era poi trasmessa all’economia reale ed è stata all’origine di una situazione di severa recessione, disoccupazione e aumento del tasso di povertà delle popolazioni. In relazione a tale operazione di salvataggio delle banche, nell’area UEM il debito pubblico era passato dal 66,2% del Pil nel 2007 all’80% nel 2009 per arrivare nel 2013 alla soglia del 92 % del Pil complessivo dell’area. La Germania in particolare è passata dal 65,2% del 2007 all’82,5 % del 2010, attestandosi al 78,4% nel 2013. La Francia è passata dal 64,2% del 2007 al 93,5% del 2013.
Alla grave crisi finanziaria, originata in primis dal comportamento delle maggiori banche americane ed europee che, con il sostanziale consenso della politica, avevano accumulato debiti enormi a causa di denaro creato dal nulla o utilizzato per concedere crediti a ripetizione senza avere in bilancio i relativi fondi, è stata dedicato il secondo incontro del 22 gennaio 2015.
E’ interessante sottolineare che, principalmente a causa dei deficit dei bilanci pubblici per i salvataggi, dal 2010 la crisi delle banche è stata messa in ombra con uno spostamento ad arte dell’attenzione della pubblica opinione sulla crisi dei debiti sovrani degli Stati PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Questa operazione è stata realizzata da parte degli organismi dell’Unione Europea, dal Fondo Monetario Internazionale e dai governi europei addossando tali deficit alla generosità dello stato sociale di questi Paesi, costringendoli ad attuare severe politiche di austerità imposte da provvedimenti sempre più rigorosi e vincolanti finalizzati ad un pareggio di bilancio da conseguire con tagli alla spesa sociale.
Analizzando le serie storiche dall’Unità d’Italia ad oggi, si può affermare che il debito pubblico italiano in rapporto al Pil è sempre stato elevato. Tuttavia, rivolgendo l’attenzione ad anni recenti e cioè a partire dagli anni ’80, è possibile constatare che nel 1980 il debito pubblico non raggiungeva il 58% del Pil ma che 14 anni dopo era più che raddoppiato raggiungendo il 124 % per arrivare, anche per effetto della recessione, alle cifre ancora più elevate del 2013 e del 2014.
Contrariamente a quanto sostenuto, a partire dal 2010 da governi e media, non è riscontrabile una correlazione tra l’incremento del debito e un eccesso di spesa pubblica finalizzata alla protezione sociale della popolazione. La causa scatenante dell’escalation del debito pubblico italiano, in particolare tra il 1980 e il 1994, va individuata nel c.d. divorzio tra la Banca d’Italia e lo Stato avvenuto nel 1981. Con il “divorzio” si deve intendere la decisione della Banca d’Italia di non acquistare più titoli di stato, a cominciare da quelli rimasti invenduti nelle aste periodiche. Mentre anteriormente a tale decisione erano le banche private a dover accettare i tassi di interesse sui titoli imposti dal Governo, successivamente era lo Stato che, privato della rete di protezione della Banca centrale, doveva accettare le condizioni imposte dal Mercato. La conseguenza di tale decisione fu la forte impennata del tasso medio di interesse sul debito, che è stata all’origine della vistosa crescita della voce di spesa per interessi nel bilancio pubblico e dell’enorme aumento del debito in rapporto al Pil.
La crescita del debito italiano non è dovuta, quindi, ad un’impennata della spesa a favore della protezione sociale. A conferma di ciò si evidenzia che nel 1984 l’Italia spendeva al netto degli interessi sul debito il 42,1% del Pil e nel 1994 tale spesa era del 42,9%, al di sotto della media UE e della futura Eurozona. Tra il 1984 ed il 1994 la media della UE (esclusa l’Italia) era passata dal 45,5% al 46,6% e quella dell’Eurozona era passata dal 46,7% al 47,7%. Inoltre, a partire dal 1992, con il Governo di Giuliano Amato, al fine di perseguire i parametri stabiliti nel Trattato di Maastricht, si è inaugurata una politica di rigore finanziario, fatta di tagli alle spese e di maggiori entrate fiscali, che è stata portata avanti in modo più o meno deciso dai governi successivi. Il 1992 si è chiuso con un avanzo primario pari a 15 miliardi di euro attuali. Dal 1992 al 2014 tutti i bilanci, ad eccezione del 2009, si sono chiusi con un avanzo primario ma ciononostante il debito pubblico ha continuato inesorabilmente la sua corsa sino a sfondare nel 2014 la soglia di 2135 miliardi di euro.